Flessibilità spinta e contratto “a termine” sembrano essere le parole d’ordine del DL LAVORO del Governo Renzie che oggi arriva in Parlamento. Per Renzie questa riforma del lavoro è necessaria ed indispensabile per combattere la disoccupazione. Insomma, flessibilità, contratti a termine, contratti part time e compressione di alcuni diritti del lavoratore porterebbero ad un incremento dell’occupazione. Ma anche in questa circostanza Renzie mente sapendo di mentire.
Infatti, basta dare uno sguardo alla Spagna dove è stata fatta una riforma del mercato del lavoro molto simile a quella che si accinge a fare il Governo Renzie (che poi è la riforma del lavoro suggerita dall’Europa cioè dal duo Merkel-Juncker). In Spagna la riforma è servita unicamente a redistribuire il lavoro fra tempo pieno e tempo parziale e tra contratti a tempo indeterminato e contratti precari ( a termine). Come affermato dall’economista spagnolo José Carlos Diez la riforma del lavoro si è risolta unicamente in una “distruzione brutale del lavoro a tempo pieno e a tempo indeterminato” a favore di quello part time e di quello a termine. È gli effetti positivi sull’occupazione? Nessuno, anzi è previsto un aumento della disoccupazione soprattutto giovanile nel 2014, secondo Diez. Chi vuole questa riforma? E perché? I datori di lavoro che assumono a tempo parziale e temporaneo pagano, almeno in Spagna, un salario orario inferiore del 40% rispetto a quello del tempo indeterminato. Sempre in Spagna un effetto è stato prodotto dalla riforma del lavoro. Il reddito netto delle famiglie si è ridotto di 15 miliardi di euro ed è aumentato di 40 miliardi di euro quello delle aziende. La Spagna, conclude Diez, è in deflazione, il debito pubblico è fuori controllo e la disoccupazione aumenta. La riforma del lavoro spagnola e adesso quella italiana appartengono a quella scuola di pensiero economico secondo cui la disoccupazione si combatte con l’abbassamento dei salari.
Forse, a mio modestissimo parere, andrebbe ripescato Keynes che alla domanda “una riduzione dei salari monetari ha la tendenza diretta, a parità di altri fattori, ad aumentare l’occupazione?” così rispondeva “il volume dell’occupazione è correlato unicamente con il volume della domanda effettiva e che la domanda effettiva, essendo la somma del consumo atteso e dell’investimento atteso, non può cambiare se la propensione al consumo, la scheda dell’efficienza marginale del capitale e il tasso d’interesse sono tutti invariati. (…) non vi è, quindi, alcun motivo per credere che una politica monetaria di mercato aperto sia in grado, senza aiuto, di raggiungere questo risultato” ( John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936). In altri termini, per Keynes, l’occupazione dipende dalla DOMANDA aggregata (costituita da: consumi, investimenti, spesa pubblica ed esportazione). Semplificando al massimo: 1) la riduzione dei salari riduce il reddito disponibile; 2) la riduzione del reddito riduce i consumi delle famiglie; 3) la riduzione dei consumi riduce la domanda e, quindi, la produzione di beni e servizi; 4) la riduzione della produzione provoca la disoccupazione.
Soltanto uno sprovveduto, oggi in Italia, può pensare che gli 80 euro al mese promessi ad una minoranza di cittadini possano aumentare significativamente i consumi e produrre un aumento della domanda che porti ad un incremento dell’occupazione.
Interessante e risolutiva è sicuramente, per me, la proposta del Movimento 5 Stelle secondo cui “il lavoratore a termine deve avere una retribuzione più alta rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato: il M5S propone che sia riconosciuta al lavoratore precario una indennità di flessibilità aggiuntiva pari al 30% della retribuzione ordinaria ( http://www.beppegrillo.it/movimento/parlamento/2014/04/dl-lavoro-tutti-gli-schiavi-del-presidente-precarenzi.html).
Questa proposta e, soprattutto, il reddito di cittadinanza possono effettivamente dare una scossa ai consumi e innescare un cammino virtuoso che attraverso l’aumento della domanda porti all’aumento dell’occupazione.
Molto interessante e senz’altro condivido. Tranne, per qualche aspetto, il riferimento a Keynes, che non viveva al tempo della globalizzazione. A mio parere, la riduzione del costo del lavoro (che non deve necessariamente avvenire a scapito dei lavoratori), non serve ad aumentare l’occupazione ma a combattere l’esodo delle imprese. Naturalmente, da solo non basta ma contribuisce. La flessibilità, che deve avere un costo superiore al lavoro indeterminato (che va sempre promosso), aiuta le imprese in periodi di crisi come quello attuale, così che le imprese possano gestire la riduzione delle commesse più facilmente ed anche adeguarsi piú facilmente e in minor tempo ai mutamenti del mercato, compreso la ripresa economica.
Sempre interessanti le tue riflessioni, grazie.